Oggi più che mai, sento che il genere umano è uno”. – Scriveva già  Salgado nel lontano 1999 –  “Vi sono differenze di colore, di lingua, di cultura e di opportunità, ma i sentimenti e le reazioni di tutte le persone si somigliano. Noi abbiamo in mano la chiave del futuro dell’umanità, ma dobbiamo capire il presente. Queste fotografie mostrano una porzione del nostro presente. Non possiamo permetterci di guardare dall’altra parte.”

“È passata quasi una generazione da quando queste fotografie sono state esposte per la prima volta”.  – Afferma Lélia Wanick Salgado – Eppure, per molti aspetti il mondo che ritraggono è cambiato poco, visto che la povertà, i disastri naturali, la violenza e la guerra costringono ancora milioni di persone ogni anno ad abbandonare le loro case. In alcuni casi, vanno a finire in campi profughi che presto si espandono fino a diventare piccole città; in altri, sono pronti a investire tutti i risparmi, e perfino la vita, per inseguire il sogno di una mitica Terra Promessa. I migranti e i profughi di oggi sono senza dubbio il prodotto di nuove crisi, ma la disperazione e i barlumi di speranza che vediamo sui loro volti non sono poi molto diversi da quelli documentati in queste immagini”. 

Suddivisa in cinque capitoli,  la mostra chiude con una sezione particolarmente toccante, è quella dei ritratti. Qui i bambini fotografati sono rappresentativi di altre decine di milioni che si possono incontrare nelle baraccopoli, nei campi profughi e negli insediamenti rurali di America Latina, Africa, Asia ed Europa. Sono stati scelti in modo casuale, ma sono anche orgogliosi della loro individualità, perché in realtà hanno scelto loro di essere fotografati.  Gli abiti, le pose, le espressioni, gli occhi comunicano tristezza e sofferenza ma, a volte, anche allegria e speranza. O almeno così ci sembra o così vorremmo che  fosse. Sono soli e forse per la prima volta nella loro giovane vita, sono nella condizione di dire “Ci sono anch’io”.